In una mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma del 2018, Tre stazioni per arte e scienza, ho visto The Immortal del duo artistico Revital Cohen and Tuur Van Balen.
Nell’installazione, un insieme di strumentazioni avanzate di ingegneria biomedica riproduce artificialmente funzioni biologiche. Tra le altre, un dializzatore svolge la funzione di un rene artificiale attraverso un articolato apparato circolatorio, composto da tubi, pompe, e da una macchina per l’autostrasfusione.
La totale assenza di qualsiasi traccia di corpo o presenza umana trasmette l’idea che le macchine siano diventate autosufficienti e indipendenti nel generare funzioni vitali. La riproduzione della biologia come inorganico d’acciaio alimenta, per contrasto, la nostalgia per la bellezza armonica del nostro rene e fa riflettere su una distanza che sembra incommensurabile. La tecnica fatica molto a diventare vitale e resta sempre distante dall’equilibrio di forma e funzioni del corpo.
Ma ha senso opporre corpo naturale e corpo artificiale? L’ibridazione di corpo e tecnica è ciò che in qualche modo distingue l’umano rispetto alle altre specie. Dai primi strumenti/utensili che potenziano le capacità del corpo, fino agli innesti tecnologici contemporanei, il corpo puramente naturale non è mai esistito. Donna Haraway vede proprio nel corpo cyborg un’opportunità di riprogettarsi con identità nuove e fluide che superano il limite/confine della pelle e del genere.
Certamente l’attuale accelerazione dell’innovazione tecnologica richiede una riflessione importante. Non era mai accaduto, in nessuna cultura umana, che l’interazione quotidiana avvenisse prevalentemente in un mondo di effigi, piuttosto che in un mondo fisico. Lavoro, tempo libero, tempo di cura, in gran parte si svolge o può svolgersi in ambienti digitali, in cui si interagisce con riproduzioni senza tatto e senza odore di noi stessi. Del nostro corpo resta solo la voce.
L’International Consensus Assembly on Telemedicine promossa da SIT a Bologna il 10 e l’11 marzo ha rappresentato un’occasione importante non solo per condividere la grande accelerazione della digitalizzazione della cura, ma anche per interrogarsi sull’interrelazione tra Ratio Technica e Ratio Ethica.
Il professor Antonio Vittorino Gaddi, presidente SIT, ha aperto i lavori con una domanda chiave che ha fornito una cornice di senso all’intero incontro: “Ratio Ethica e Ratio Technica: alleanza, separazione o conflitto?”.
Le decine di interventi delle due giornate di lavoro hanno offerto risposte diverse a questa domanda. L’incontro ha visto una ricorrenza semantica significativa delle parole “persona” e “relazione”, non come slogan, ma come motori intorno a cui costruire nuovi percorsi di cura. Tra tutti, il cardiologo Giuseppe Mancia ha sintetizzato un aspetto chiave della cura ”The most common reason for patients to take medication as prescibed is belief in their doctor”. La fiducia è un valore fondamentale, che non ha la giusta importanza nella progettazione dei percorsi sanitari.
Sandro Spinsanti, per anni docente di etica medica e tra i protagonisti delle Medical Humanities in Italia, ha dedicato alla fiducia un libro molto importante: “Per una diversa fiducia”.
La fiducia nei medici, nella scienza, nelle organizzazioni sanitarie è in grave crisi. Sandro Spinsanti offre alcune piste relazionali importanti che potrebbero essere rilanciate e valorizzate fortemente dalla digitalizzazione della salute.
Le relazioni, le ricerche, gli strumenti presentati durante il congresso SIT fanno pensare che sia possibile un’alleanza tra Ratio Ethica e Ratio Technica, tra efficienza e fiducia. Abbiamo la grande opportunità di superare il riduzionismo dello sguardo medico degli ultimi decenni, che ha trasformato le persone in “ginocchio”, “rene”, “anca”, “mammella”, “prostata”. Le innovazioni attuali possono aiutare a recuperare uno sguardo sistemico, a patto di riconoscere che gli apparati tecnologici che dimenticano i corpi e la persona diventano ammassi di materiale senza bellezza.