Corpo e narrazioni

Il 3 marzo a Roma SIMeN-Società Italiana di Medicina Narrativa e la rivista IL CORPO propongono una riflessione sulla costruzione narrativa di corpi, malattia, salute, in occasione della presentazione del Dizionario di Medicina Narrativa e dell’ultimo numero della rivista (qui il modulo per iscriversi all’evento).

L’interazione fisica tra i corpi si è ridotta moltissimo con la diffusione di massa degli strumenti di comunicazione digitale, accelerata dalla pandemia. Lavoro, spesa, musei, ginnastica, tempo libero, cura, ci vedono sempre di più in compagnia di effigi digitali con cui interagiamo senza tatto e senza odori, in una dislocazione spazio-temporale ambivalente in cui siamo e non siamo insieme nello stesso tempo.

Il “toccare è toccarsi” di Merleau-Ponty  non è più mediato dal tatto fisico, ma da una narrazione, che sia verbale, scritta o iconica. Il nostro corpo interagisce sempre più con immagini e narrazioni di altri e sempre meno con corpi di altri. Orecchio e occhio sono gli organi che generano una grandissima parte della nostra esperienza quotidiana di altri corpi, di cui solo la voce ci arriva ‘quasi’ come se fossero presenti. Sarebbe importante riflettere di più sulla voce a partire dal saggio di Corrado Bologna del 1992, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della Voce, ripubblicato nel 2022. La voce è l’unico residuo fisico che resiste nell’interazione digitale.

Sempre di più nel nostro quotidiano attingiamo alla realtà di un altro attraverso la narrazione che vuole offrirci. I rumori del corpo e del suo ambiente possono essere messi a tacere con il tasto “muto” della tastiera. Lo sfondo può essere “sfocato” o sostituito. Nessuno sa quanto siamo alti. Il colore dei capelli si intuisce ma non è chiaro. In generale il più delle volte la nostra immagine è poco più grande di una foto tessera. Quando entreremo nei mondi virtuali del Metaverso spariremo del tutto come immagine e forse anche come voce fisica, sostituiti da avatar e audio spaziale, diventeremo pura narrazione.

Sto incontrando in  convegni ed eventi in presenza moltissime persone con cui ho interagito per molti mesi a distanza, in progetti coinvolgenti e importanti: ho temuto di non riconoscerli. Mi sono scoperta a fare una cosa bizzarra. Ho cercato la loro immagine su internet, in modo che l’effigie digitale potesse confermarmi la verità del corpo reale. Mi è spesso capitato di sognare sconosciuti che incontravo nel quartiere o su un bus,  ma con cui non avevo mai parlato. Ogni volta che li incontravo dopo averli sognati, avevo una strana sensazione di intimità accompagnata da un forte senso di distanza ed estraneità. Ecco, i corpi reali in presenza di tutti coloro con cui in questi mesi ho interagito a distanza mi sono apparsi quasi come figure oniriche, vere e non vere allo stesso tempo. I corpi reali diventano effigi e le effigi generano realtà.

A tutto questo si affianca un altro fenomeno: l’infinita conversazione nei social media e nelle community online su ogni aspetto del proprio corpo. Non c’è organo che non venga fotografato e/o raccontato: dalle ciglia all’intestino tenue. Anche gli organi o le funzioni “tabù” sono al centro di una continua appropriazione narrativa nei gruppi digitali.

Lo schema corporeo è sempre più costruito in un crocevia di narrazioni che avvengono in uno spazio-tempo senza coordinate e senza limiti. L’eterno dibattito sull’interazione tra corpo naturale e corpo sociale non terminerà mai ed eccede ogni tentativo di far prevalere una dimensione sull’altra. Siamo un continuum dell’uno e dell’altro, non possiamo far esistere l’uno senza l’altro. Già prima del concepimento, esistiamo come corpi immaginati, corpi ereditari e corpi sociali.  Quello che però è radicalmente nuovo oggi è la centralità della narrazione in questa costruzione del corpo, rispetto all’interazione fisica. Non solo la narrazione digitale. Pensiamo anche all’autocertificazione del genere oppure alla neutralizzazione del linguaggio, per evitare che ci attribuisca corpi che non vogliamo o renda visibili differenze che non accettiamo.  Siamo tutti immersi in un ambiente narrativo che investe ogni aspetto della nostra corporeità, come non era mai accaduto prima. Sempre più assente in presenza, il corpo è sempre più centrale nella narrazione e sempre più narrato per esistere.

Il progetto R-esistere, curato da SIMeN e raccontato anche nel Dizionario di Medicina Narrativa ha raccolto e analizzato le storie degli operatori sanitari durante la prima fase della pandemia. Racconta un operatore: “Noi infermieri, medici, oss e fisioterapisti siamo stati tutti oggetto di omologazione, tutti abbiamo perso il nostro essere unici in quanto tali. Le bardature avevano la terribile capacità di azzerare i tuoi tratti distintivi. Molti di noi avranno vissuto il dramma di non riconoscere gli altri e di non essere riconosciuti… il virus aveva rapito anche la nostra unicità […] E allora gli occhi diventano improvvisamente il nostro biglietto da visita, il nostro mezzo di identificazione, la nostra interfaccia con il mondo relazionale”.

A fine pandemia, viene da chiedersi, come salvare l’unicità e l’importanza del corpo del curante nella relazione terapeutica? Nella telemedicina rischiano di restare solo gli occhi “il biglietto da visita”? Quanto è importante l’approccio narrativo nel nuovo rituale terapeutico digitale? Quanto è importante che anche il corpo del curante diventi un corpo narrato? Quanto è importante nella cura integrare il sesso con il genere auto dichiarato? Le voci del dizionario offrono spunti importanti per queste riflessioni.

Nell’ultimo numero della rivista IL CORPO, Enrico Pozzi restituisce la potenza di corpi, sedie, brusii, voci e silenzi della “stanza del gruppo” terapeutico, un setting fisico che però diventa anche “spazio artificiale che sospende per il tempo della seduta gran parte del sistema di valori, norme, comportamenti, linguaggi del mondo esterno”.

Che cosa ne è di questa tensione se lo spazio diventa solo artificiale? Se i corpi non sono più corpi ma effigi? Se la “stanza del gruppo” è disancorata da una stanza reale?

Non abbiamo risposte ma solo la proposta che su tutto questo  si apra una grande e interessante fase di ricerca e innovazione, come racconta nella rivista IL CORPO, il duo artistico VestAndPage: “Non avevamo idea né tantomeno potevamo prevedere, fino a qualche mese fa, di come diventare o dover trasformarci per forza di cose in internet-based performance artists. Per poter continuare a lavorare ci siamo, nostro malgrado, consegnati alla rete nel tentativo di dar forma al vuoto che si viene a creare quando una pratica artistica come la nostra, la body-based performance art, è privata del suo mezzo principale, la materia prima che la definisce e la caratterizza: il corpo (quello del performer così come quello dello spettatore)”.