La cartella clinica è un oggetto storico e culturale che non contiene in modo oggettivo e neutrale informazioni diagnostico-terapeutiche, ma rispecchia caratteristiche dell’organizzazione sanitaria, gerarchie, modelli relazionali, saperi e metodi.
E’ talmente ovvia nel suo statuto di certificato delle nostre patologie, che spesso non ci rendiamo conto dei significati che implicitamente trasmette.
La conferenza conclusiva del progetto europeo SToRe – Storytelling on Records, all’Istituto Superiore di Sanità, ha offerto l’occasione per interrogarsi e confrontarsi sulla storicità della cartella clinica, dei suoi formati e dei suoi usi.
Il live tweeting e la diretta periscope del Center for Digital Health Humanities hanno consentito la partecipazione a distanza anche di giornalisti, blogger, ricercatori, professionisti sanitari, associazioni.
Lo storify della blogger Francesca Memini sintetizza in modo completo ed efficace i temi più significativi dell’incontro.
Il progetto SToRe, coordinato per il CNMR (Centro Nazionale Malattie Rare) da Amalia Egle Gentile, ha coinvolto sei paesi europei (Italia, Bulgaria, Grecia, Repubblica Ceca, Spagna e Turchia), con l’obiettivo di rilevare la diffusione e l’importanza attribuita all’integrazione della cartella clinica con la storia del paziente (IMR – Integrated Medical Records).
Il primo dato che emerge dalla ricerca è che solo nel 40% dei casi il paziente ha accesso alla cartella clinica e solo nel 13% dei casi può integrare le informazioni. Il 70% dei professionisti sanitari per lo più utilizza la cartella clinica esclusivamente per registrare informazioni cliniche e, nonostante l’esistenza di formati elettronici, quasi mai è possibile caricare immagini e video.
Nella sua bellissima lecture introduttiva Sandro Spinsanti, protagonista delle medical humanities in Italia, ricorda che: ”La questione dell’informazione è legata a una domanda più fondamentale: chi deve prendere le decisioni in medicina?”
Spinsanti ci conduce in un bel “viaggio nel tempo” dell’informazione in medicina, con l’avvertenza che non si tratta di un viaggio cronologico, ma di fasi parzialmente ancora presenti. I due simboli più significativi del viaggio sono la grafia illeggibile della cartella clinica, nel passato remoto e Salvatore Iaconesi che condivide in rete i suoi esami clinici, nel futuro anteriore.
La presentazione dei risultati generali e nazionali del progetto SToRe solleva molti stimoli e segnala quanto sia importante gestire questa fase di transizione, problematizzando formati e lessici. Come ricorda Domenica Taruscio, direttrice del CNMR, già usare la parola “paziente” ha una serie di implicazioni implicite: “Sono dati che ci suggeriscono l’importanza di ottenere un modello integrato che dia spazio alla partecipazione della persona con una patologia, utile per formulare la diagnosi e accompagnare la persona nel percorso clinico e favorire una migliore adesione alle cure” spiega Taruscio.
La grande discontinuità di oggi rispetto al passato è generata dal fatto che i pazienti non solo hanno il diritto ad essere informati, contribuiscono anche a produrre le informazioni che alimentano la cartella clinica. Sia i dati biomedici rilevati con lo smartphone, sia la storia dettagliata del problema e degli effetti della cura. Il paziente è diventato “esperto” e ha gli strumenti per monitorarsi e raccontarsi.
Per immaginare la cartella clinica del futuro occorre allora chiedersi, come ha fatto Chugani del team spagnolo:“Chi è l’owner della cartella clinica?”. E, aggiungo io, a che tipo di dati e modelli relazionali si associa?
Nel mio intervento ho cercato di immaginare la nuova cartella clinica come un hub/network contrapposto al form/repository attuale, un nuovo formato per la la nuova medicina evocata da Eric Topol.
L’owner della nuova cartella clinica è il paziente, che la gestisce insieme ai medici e alle organizzazioni sanitarie, e la condivide con un pubblico più ampio di HCP, altri pazienti, cittadini.
In quanto hub la cartella clinica non è una certificazione/archivio, ma un insieme dinamico di percorsi e relazioni, con la storia della persona al centro. Nel nuovo modello, la cartella clinica diventa un personal and social health record, a supporto di percorsi diagnostico-terapeutici sistemici e personalizzati, ma anche di campagne sociali di prevenzione e di progetti estesi di ricerca e follow up.
Uno dei simboli di questa fase è Lisa che l’11 maggio condivide su facebook la fossetta al seno che segnala il suo tumore, raccogliendo 72mila condivisioni. Non una mammografia, ma una semplice foto in grado di comunicare in modo diretto e immediato il problema, e aiutare altri a riconoscerlo.
Quasi sicuramente l’Italia non riuscirà a raggiungere l’obiettivo dell’adozione entro il 30 giugno in tutte le regioni del fascicolo sanitario elettronico. Da un lato questo è un danno, dall’altro forse può essere l’occasione per non riprodurre meccanicamente e sterilmente il modello form/repository, ma per immaginare una nuova cartella, che rispecchi la nuova crowd medicine.
Come ricorda Paolo Colli Franzone dell’osservatorio Netics, in un bell’articolo su Nòva di Alessandro Longo: “Bisogna seguire l’esempio di Emilia-Romagna e Provincia di Trento, che hanno sviluppato anche portali dove gli utenti sono i cittadini, che attivamente curano il proprio Fascicolo”. La provincia di Trento ha creato trec, la cartella clinica del cittadino e la Regione Emilia Romagna ha ideato un modello innovativo di FSE.
Per una volta, potremmo trasformare il ritardo in innovazione e pensare, per primi, la cartella clinica come un hub, partendo da chi ci sta già lavorando.