“Uno sguardo raro”: vedere e non vedere la disabilità

UNO SGUARDO RARO-RARE DISEASE INTERNATIONAL FILM FESTIVAL è il primo Festival internazionale di Cinema che seleziona e promuove le migliori opere video provenienti da tutto il mondo che raccontano le sfide della vita con una malattia rara o una condizione di diversità.

Per la VII edizione, 50 opere in concorso fra corti, lungometraggi e animazioni, provenienti da 35 paesi. Più di 20 i premi assegnati da 6 diverse giurie, a cui si è aggiunto il premio della giuria popolare che ha votato i corti registrandosi su www.unosguardoraro.tv

Claudia Crisafio, direttore artistico, sottolinea il ruolo sempre più importante assunto dal festival nel racconto delle malattie rare e della disabilità: “La crescente affermazione nazionale e internazionale, registrata dal Festival in sette anni di vita, testimonia come la manifestazione stia contribuendo concretamente a dare voce e visibilità all’emergere di una nuova sensibilità verso i temi del vivere in condizioni di disabilità e diversità, facendosi portatore sano delle emozioni e dei bisogni di piena integrazione, nonché delle espressioni artistiche che ne traggono ispirazione”.

Guardando film, cortometraggi, documentari del Festival, ci rendiamo conto che il nostro sguardo spesso ci tradisce: nel modo di guardare la malattia di un altro, spostiamo la persona dal regno della normalità in quello dell’eccezione e della devianza. Operiamo in modo metonimico: assumiamo la parte per il tutto e fissiamo il nostro sguardo su quella parte, confondendola per il tutto. È un inganno cognitivo ed emotivo che procura dolore in chi lo subisce. Talvolta è un inganno condiviso e rafforzato dallo sguardo medico e talvolta anche dallo sguardo del paziente su se stesso. È importante mostrare e vedere la disabilità per aumentare la consapevolezza collettiva, sanitaria e istituzionale sull’importanza di cure, servizi, supporti. E al tempo stesso è importante dimenticare la disabilità e guardare chi abbiamo davanti come una persona con la sua personalità, la sua simpatia o antipatia,  i suoi interessi, i suoi progetti. Durante le proiezioni e le presentazioni dei premiati del Festival, ho vissuto questo va e vieni tra visibile e invisibile, ho visto la disabilità, mi sono stupita per malattie che non conoscevo, ho capito il danno di non vedere il disagio di sintomi rari e, nello stesso tempo, mi sono dimenticata della disabilità, della malattia, perché ho visto persone, con le loro biografie complesse, con le loro aspirazioni e i loro difetti, persone come me e come tutti. Rari e nello stesso tempo banalmente e felicemente comuni.

Il Festival riesce nell’obiettivo di raccontare la disabilità per condividerla e farla conoscere e nello stesso tempo per farla dimenticare come stigma.

Il vincitore 2022 del premio per il miglior lungometraggio, “Rukije Un Raggio di Sole: la terapia della speranza” di Claudia Borioni e Matteo Alemanno, trasmette in modo molto efficace questo duplice obiettivo.

Il documentario racconta l’attività di pazienti ed ex pazienti dell’IRCSS Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma che operano come volontari dell’associazione “Rukije Un Raggio di Sole” nel reparto di Ortopedia oncologica, dove sono stati stati curati.

È  un  “volontariato della speranza” come loro stessi lo definiscono.  Sono presenti in reparto per accompagnare  i pazienti neo-diagnosticati, che vanno incontro a chirurgia, terapie con un grande impatto e disabilità associata ad amputazioni, resezioni e protesi.

Quando un paziente si deve operare, il  professor Biagini  (direttore della Ortopedia Oncologica dell’IFO), mi dice, vai tu a dirglielo che glielo spieghi meglio”, racconta un volontario.

L’attività di Rukije Un Raggio di Sole è fortemente sostenuta da tutto il team chirurgico e oncologico. Il primario, Biagini, racconta nel documentario: “Noi abbiamo capito che poteva essere una parte della cura o una parte dell’accettazione della cura” e Virginia Ferraresi, oncologa, commenta: “Molto spesso la voce del paziente è molto più potente di quella del medico”.

I pazienti non nascondono le loro disabilità, c’è chi non ha una gamba, chi è senza bacino. L’obiettivo è mostrare, come ricorda una volontaria che “cancro non è morte e disabilità non è infelicità”. Il documentario riporta anche la testimonianza di Fabrizio Benedetti, neurofisiologo dell’Università di Torino che più di altri ha dimostrato scientificamente perché la speranza è un farmaco.

Chi però può raccontare la speranza? I tentativi di comunicare speranza da parte di chi non è coinvolto nella malattia, che siano familiari o amici, rischiano di  suscitare reazioni ambivalenti nei pazienti, perché possono suonare come un ottimismo stonato, in una fase della vita dolorosa e difficile. Per questo le parole di medici, pazienti ed ex-pazienti sono invece fondamentali nel potenziare l’effetto della speranza nella terapia. Il medico perché si basa su dati, prove di efficacia, esperienza, i volontari ex pazienti perché hanno tutta la credibilità del testimone diretto. Ma c’è di più nel volontariato della speranza. Non si tratta infatti di condividere generici messaggi di rassicurazione ma di offrire consigli, informazioni, soluzioni di vita quotidiana dal punto di vista di chi ha dovuto confrontarsi con una situazione molto simile. Il volontariato della speranza è un modello molto interessante di scienza partecipata in ospedale. I pazienti che decidono di investire nel volontariato, diventano esperti della malattia, delle cure, dei suoi impatti. Esperti esistenziali che hanno una conoscenza fondamentale dell’impatto della malattia sulla vita reale, che spesso anche i curanti non conoscono del tutto.

Proprio per questo, il volontariato della speranza ottiene un risultato molto importante: mette al centro la disabilità per renderla invisibile. Il volontario mostra la sua disabilità, non la nasconde, ma vederla non genera rifiuto, ansia, stigma, piuttosto, per contrasto, rafforza la percezione di normalità, di una normalità aumentata, potremmo dire, perché richiede fatica, impegno, aiuto. Si  passa dalla “disability” a “this ability” e non è un gioco di parole ma un modo totalmente diverso di vivere la malattia nell’agire quotidiano.  Il volontariato della speranza è fondamentale per operare quella  trasformazione che dovrebbe essere l’obiettivo di ogni percorso di cura: non vedere più la disabilità, ma una persona che ha una disabilità.  Potrebbe sembrare una fissazione linguistica o l’ennesimo slogan di moda. Il documentario di Rukije Un Raggio di Sole ci fa capire con efficacia che non lo è.

L’azione positiva del volontariato della speranza in ospedale non è solo sui pazienti. È anche sui curanti: hanno un alleato di cui possono fidarsi. Possono essere tranquilli che i volontari troveranno parole appropriate e sapranno offrire consigli concreti. Si sentono rassicurati perché vedono la conferma del successo delle cure.  I curanti possono però  trarne ancora più beneficio. Possono imparare a cambiare il loro sguardo, a pensare non al tumore ma alla persona, non come slogan ma come metodologia di co-costruzione del percorso di cura. Nel reparto si sta cominciando a fare. È   stato infatti avviato un percorso di medicina narrativa digitale  per cogliere il punto di vista del paziente, le sue esigenze, i suoi vissuti. Le narrazioni supportano nel raggiungimento di quei micro-obiettivi di normalità che sono lo scopo di ogni paziente: poter essere persona, nonostante la malattia. Il percorso è anche uno studio, coordinato dall’oncologa ed epidemiologa Maria Cecilia Cercato di cui sono stati già pubblicati i risultati preliminari, per condividere l’esperienza nella comunità oncologica.

La prossima sfida? Inserire nei percorsi di medicina narrativa anche i volontari. Il digitale può facilitare in questo. La  fondamentale attività in reparto potrebbe essere integrata da gruppi digitali che possono orientare e rafforzare l’impegno nelle diverse fasi, dall’impatto della chirurgia, al ritorno a casa sempre critico, alla riabilitazione.

Il Festival Uno sguardo raro può servire anche a questo: stimolare nuovi modelli di cura partecipata in cui ognuno costruisce un piccolo pezzo di speranza e di normalità per la persona.