Casa come primo luogo di cura e telemedicina: ripartiamo dal Piano Nazionale Cronicità

Anno 2016: il Piano Nazionale della Cronicità apre la strada a nuovi paradigmi di cura centrati sulla persona. Ricordiamo alcuni passaggi fondamentali:

« Il Piano di cura personalizzato costituisce un programma che integra un ‘percorso assistenziale’ con un ‘percorso esistenziale’, che tiene in primaria considerazione i bisogni, le aspettative e i desideri del paziente, che è e resta l’attore fondamentale della propria cura, esperto della propria malattia “vissuta” (illness), ben diversa e lontana dal classico concetto clinico di malattia (disease), generalmente prevalente nei servizi e tra i professionisti »

L’obiettivo del Piano è « l’incremento di modelli di assistenza che sappiano coniugare soluzioni tecnologiche con i bisogni di salute del paziente-persona ».

Quindi non solo monitoraggio in remoto di parametri clinici ma anche delle storie, dei bisogni, dei progetti mutevoli di vita della persona e dei caregiver. Il Piano fa sue le parole e le metodologie della medicina narrativa, finalizzata alla personalizzazione bio-psico-sociale del percorso di cura.

Questa la promessa, ma anche la direzione di lavoro che ci ha ispirato e guidato negli anni successivi, in cui abbiamo lavorato a costruire strumenti che consentissero di rilevare, interpretare e integrare il percorso esistenziale nel piano di cura, perché non restasse una pura dichiarazione.

Anno 2022, dopo 6 anni e una pandemia: arriva il decreto del Ministero della Salute con il  “Modello digitale per l’attuazione dell’assistenza domiciliare”, così come previsto dalla roadmap del PNRR, in relazione all’obiettivo:  “Casa come primo luogo di cura e telemedicina”.  Le regioni e le province dovranno adottare il modello, tenendo conto delle specificità regionali.

Il decreto disegna il modello organizzativo per “l’implementazione dei diversi servizi di telemedicina nel setting domiciliare, attraverso la razionalizzazione dei processi di presa in carico e la definizione dei relativi aspetti operativi, consentendo di erogare servizi attraverso team multiprofessionali secondo quanto previsto a legislazione vigente anche a distanza”.

Ci siamo. Forse questa volta ce la facciamo a digitalizzare la continuità di cura, ma viene da chiedersi: possiamo trovare qualcosa del paradigma innovativo del Piano Nazionale Cronicità?

La risposta è: forse. C’è un impianto molto articolato e al tempo stesso semplificato e facilmente fruibile, ma ci sono anche incertezze e slittamenti semantici che preoccupano. Vediamoli:

1) Tra gli obiettivi indicati dal modello, c’è anche quello di “fornire al paziente un’assistenza che comprenda risposte a bisogni clinico-assistenziali, e psicologici anche per ridurre l’impatto negativo del vissuto di malattia nel paziente”.

Il “percorso esistenziale” e l’integrazione di disease e illness del Piano del 2016 sono spariti. Appare il bisogno “psicologico” che, benché di per sé centrale, è un’altra cosa, come hanno ben chiarito le Linee di Indirizzo dell’ISS per l’applicazione della medicina narrativa nella pratica clinica. Non si tratta “solo” di ridurre l’impatto negativo del vissuto di malattia. La digitalizzazione delle cure domiciliari può favorire una effettiva personalizzazione del percorso terapeutico, sulla base delle esigenze affettive, relazionali e sociali del paziente e del nucleo familiare.

2) Continuando a leggere fiduciosi, troviamo, sempre tra gli “obiettivi di sistema”  quello di:  “migliorare la qualità di vita percepita del paziente, della famiglia e dei caregiver; sembrerebbe trattarsi di attività da ricondursi al sociale. Sono necessari chiarimenti. Riteniamo utile lasciare il riferimento in quanto la telemedicina contribuisce all’obiettivo”. Bene, ampliamo dallo psicologico alla “qualità di vita” con l’importane aggettivo “percepita”, quindi non la qualità clinicamente rilevata, ma quella soggettiva, basata sul vissuto specifico del singolo e non solo, anche della rete di supporto.  Non facciamo in tempo ad apprezzare, perché il paragrafo successivo sembra rimangiarsi tutto. Ma la qualità di vita percepita può essere l’obiettivo di un percorso di cura digitale domiciliare? La commissione che ha redatto le linee di indirizzo, sembra avere qualche incertezza, forse è “sociale”…. E questo purtroppo è un vero e grave arretramento rispetto al Piano Nazionale Cronicità , che speriamo le regioni colgano e correggano. Al contrario, rischiamo di tornare ad un modello fortemente riduzionista e non sistemico di presa in carico, sprecando il potenziale innovativo della telemedicina.

3) Il documento sintetizza in modo efficace gli attori, i flussi e gli strumenti che sono molti ed articolati. Una semplificazione che sembra positivamente orientata ad una operativizzazione effettiva e veloce del modello organizzativo. Flussi e ruoli tradiscono però le resistenze culturali ad una effettiva partecipazione attiva delle persone al proprio percorso di cura.

Guardiamo la tabella. Perché il paziente non può essere R – Richiedente? Mi si obietterà facilmente che l’apertura a tutti di questa possibilità non è sostenibile e che serve il filtro di un esperto. E a me altrettanto  facilmente viene da dire: perché sono più sostenibili i continui accessi in pronto soccorso o le visite in presenza? E siamo sicuri che il filtro di un esperto non diventi un ostacolo, con le resistenze al cambiamento che purtroppo spesso caratterizzano l’organizzazione sanitaria? Ricordo ancora la battaglia personale che ho portato avanti qualche anno fa per ottenere l’accesso alle cure palliative di un familiare. Non vorrei mai che accadesse la stessa cosa con le cure domiciliari digitali.  Mettiamo magari un R* , specificando categorie di pazienti/familiari che possono effettuare la richiesta. Ci saranno poi sempre e comunque prescrittori e attivatori che potranno vagliarne l’eleggibilità e l’appropriatezza. Evitiamo che la partecipazione del paziente si riduca all’ennesimo e solo “consenso informato”.

4) Nel documento c’è una sezione (2.1.5) che ha il promettente titolo “Personalizzazione della presa in carico”.

Tornano alcune parole chiave importanti: “occorre che la tipologia di ogni servizio di telemedicina sia inserita ed erogata efficacemente all’interno del percorso individuale più appropriato per ogni persona e sia condivisa in modo partecipativo con il paziente/famiglia, orientandola alla migliore cura possibile attraverso il raggiungimento di obiettivi ben definibili. […] E’ indispensabile un’attenta analisi e una chiara definizione delle esigenze degli assistiti verso i quali ci si rivolge, dei criteri di attivazione (o di accesso), di pertinenza e di interruzione del servizio da remoto, comprendente anche gli elementi caratteristici dell’ambiente familiare e sociale”.

Poi però quando si tratta di declinare metodologie operative si resta vaghi o ancorati al puro approccio tecnologico (domotica). Anche il paragrafo successivo, dedicato alla formazione è troppo sintetico e sembra rimandare a percorsi formativi finalizzati alle pure competenze digitali. Per il successo del percorso di digitalizzazione, l’innovazione nel modello delle competenze è invece fondamentale, con un rafforzamento significativo delle abilità di comunicazione e relazionali e la valorizzazione delle metodologie della medicina narrativa.

In sintesi, le linee  guida delineano un modello organizzativo che non valorizza abbastanza il potenziale di innovazione del paradigma di cura del Piano Cronicità del 2016.  Il rischio è che prevalga una declinazione puramente amministrativa dei nuovi strumenti e una trasposizione impoverita dell’analogico.  La sfida è una presa in carico effettivamente partecipata e personalizzata. Perché questo avvenga, ci vuole un impegno di tutti a fare rete, con il coinvolgimento delle associazioni dei pazienti e una centralità della formazione non solo tecnologica, ma finalizzata ad un approccio sistemico.