“Raccogliere le storie di malattia, di trattamento, di guarigione o purtroppo di perdita, ma a volte anche di semplice quotidianità, di chi ha vissuto e vive l’esperienza della pandemia. Un invito a ritrovare un momento, un’emozione, una persona, un luogo e a raccontarle in una o molte storie“.
Questo l’intento del progetto “R-Esistere: respiro, ricordo, racconto“, della Società Italiana di Medicina Narrativa (SIMeN), con il supporto organizzativo di McCann Health Italia.
Il progetto e la proposta, da parte di SIMeN, di fare da collettore di questo racconto “universale” ha raccolto rapidamente un consenso trasversale, la fiducia e la collaborazione di tantissime realtà della società civile, sanitaria e accademica, ad oggi più di trenta collaborazioni che spaziano da Università ad associazioni di pazienti.
Il 26 novembre, nel corso del webinar dell’Istituto Superiore di Sanità “Malattie rare e COVID-19“, è stata presentata una prima analisi delle storie degli operatori sanitari pubblicate su R-esistere e sul sito vissuto.intensiva.it, animato da SIAARTI. Ho collaborato con grande entusiasmo al gruppo di studio cha ha coinvolto SIMeN, SIAARTI e l’Istituto Superiore di Sanità.
La domanda da cui siamo partiti è stata: in che modo l’analisi qualitativa basata sulle storie può integrare l’analisi epidemiologica in una situazione di pandemia? Quali elementi conoscitivi apporta e in quali ambiti applicativi è di supporto?
Sono state analizzate 112 storie pubblicate tra i primi di marzo e settembre. Sono emersi alcuni filoni di riflessione. Qui mi soffermo su due dimensioni chiave.
1) Il valore dell’atto di raccontare. Le storie si concentrano nella fase più critica del lockdown tra marzo e maggio. Raccontano il vissuto, le emozioni e le riflessioni degli autori e sembrano scritte principalmente per elaborare la propria esperienza e favorire un processo catartico. Sono presenti solo marginalmente riferimenti critici alla gestione e all’organizzazione dell’emergenza o proposte operative. La scrittura è usata come atto catartico, empatia critica con sé stessi, iscrizione della dimensione individuale in una cornice cognitiva ed emotiva collettiva. Le storie del lockdown sembrano veramente per gli operatori un modo per respirare e ricordare.
2) Le metafore e i corpi
Le metafore della guerra, dello tsunami, del nemico ricorrono spesso nelle metafore dei pazienti colpiti da una malattia improvvisa e inaspettata, come può essere il tumore. Il potere della malattia di sconvolgere in pochissimi minuti la vita, le emozioni, i progetti di una persona è sterilizzato dal linguaggio e dal rituale clinico. Lo tsunami del paziente è “routine” clinica per gli operatori. Certamente talvolta questo processo diventa eccessivo ed è per questo che la medicina narrativa, attraverso una metodologia specifica, riesce a recuperare la dimensione emotiva ed esistenziale, senza che per l’operatore diventi paralisi e impossibilità di vivere il quotidiano della malattia e della morte. L’esperienza unica del covid-19 è che lo tsunami è vissuto contemporaneamente dagli operatori e dai pazienti. Un’esperienza che nessuno pensava di poter vivere. Non c’è routine, non ci sono prove di efficacia, non ci sono farmaci, non ci sono linee guida e non c’è più il corpo del medico e il dispositivo rituale della cura che è parte della sua efficacia. A tutto si sostituisce il rituale dei dispositivi di sicurezza che diventa l’unico argine al caos e alla minaccia ma che, mentre protegge clinicamente, alimenta un ulteriore caos emotivo e relazionale. Sappiamo quanto il corpo di chi cura sia fondamentale per chi è curato. Riscopriamo quanto sia fondamentale anche per chi cura.
Nella medicina farmacologica e tecnologica, all’improvviso emerge nuovamente l’importanza del corpo del medico. Il corpo assente è un corpo che può curare? Il medico parla con le parole ma anche con i gesti, la postura, i simboli. Ora sembra che siano diventati inaccessibili. L’etnografia indaga da tempo il negoziato complesso che avviene intorno al corpo e al “vestito” del medico. L’entrare e l’uscire nel corpo curante attraverso la vestizione, i rituali che precedono e seguono l’atto chirurgico, la funzione dei codici cromatici del camice/divisa che nasconde l’individuo per mostrare il ruolo. Il bisogno di differenziazione attraverso gioielli, oggetti, dettagli di individualità. Il medico ha bisogno di sentirsi al tempo stesso ruolo e individuo, competenza e corpo. Lo tsunami del covid-19 fa sparire il corpo del curante, lo occulta per proteggerlo e per proteggere. Ma con quali conseguenze? L’esserci con una “distante prossimità” (Luigina Mortari, Filosofia della cura), rischia di sprofondare in una distanza non percorribile, che mina la fiducia nella propria capacità di cura. Come ci raccontano le storie, il corpo di un guerriero chiuso nella sua armatura non è consono al corpo di un curante.
“La guerra di trincea di cui mi parlava mio nonno non è molto differente da quella che vedo in corsia: lontani dalle nostre famiglie, impreparati e con un nemico invisibile davanti. Un nemico di cui tutti parlano ma che nessuno conosce davvero, un virus che mi ha strappato alle mie giornate, facendo di uno scafandro di plastica la mia nuova terribile divisa. Una seconda pelle, che monto pezzo per pezzo, mentre smonto ogni certezza delle mie giornate”
“Noi infermieri, medici, oss e fisioterapisti siamo stati tutti oggetto di omologazione, tutti abbiamo perso il nostro essere unici in quanto tali. Le bardature avevano la terribile capacità di azzerare i tuoi tratti distintivi. Molti di noi avranno vissuto il dramma di non riconoscere gli altri e di non essere riconosciuti… il virus aveva rapito anche la nostra unicità”
“Giuseppe è morto nella stanza di isolamento. …ha vissuto gli ultimi 11 lunghi giorni completamente da solo. Lo scafandro del personale sanitario, ha diviso il suo mondo dal nostro. Nessun volto, nessuno sguardo, nessuna mano lo ha sfiorato. Un silenzio perenne interrotto, solo ogni tanto, da una maschera di plastica bianca impersonale”.
Sarà importante lavorare su tutto questo con gli strumenti delle medical humanities, non solo per facilitare il recupero, ma per sperimentare nuove modalità di quella distanza empatica che non è un ossimoro, ma una postura necessaria all’atto di cura.
La nuova domanda è: cosa sta succedendo ora che siamo nella seconda ondata? Sarà necessaria una nuova analisi, ma possiamo aspettarci che emerga qualcosa di diverso. Scrive un medico in una storia di novembre:
“Mi sono chiesto quale dolore sia più forte: quello di chi riceve un tremendo e inaspettato pugno in faccia, come me a marzo.. o quello di chi quel pugno l’ha già ricevuto e ne vede arrivare un secondo, senza possibilità di difesa? […] Certo è che il dolore di oggi per molti di noi ha un sapore diverso, più amaro e nauseante, perché è mischiato al sapore della rabbia. Rabbia contro tanti: negazionisti, pseudo-programmatori, politicanti, saccenti, ingrati”.
Prima l’inaspettato forniva un contesto eroico all’azione, se pure nella sofferenza della battaglia. Lo tsunami poteva diventare una guerra da combattere. Ora rischia invece di emergere la rabbia dei soldati che si sentono abbandonati e traditi.
Questa prima preview di R-esistere vuole anche ricordare l’urgenza di un presidio della motivazione del personale sanitario. Non si tratta solo di offrire il supporto psicologico ma di cambiare radicalmente le parole chiave di questa nuova richiesta di impegno. Non più guerra ed eroi ma organizzazione, team, coordinamento, aiuto, vicinanza, facilitazione, sostegno, ascolto, condivisione, sicurezza per sé e per i propri familiari.
R-esistere è aperto ad accogliere le nuove storie e anche tutte le proposte che vorranno arrivare perché, come ricorda Stefania Polvani, presidente SIMeN, citando una storia:”una volta che la tempesta si sarà placata possa rinascere un mondo migliore di quello che abbiamo lasciato”.