Ogni giorno c’è un piccolo o grande pezzo della nostra vita analogica che diventa digitale. Dal taxi di cui seguiamo in tempo reale il blocco nel traffico, al registro elettronico dei figli, da cui apprendiamo voti e assenze, senza dover chiedere. E soffriamo anche quando vorremmo un servizio digitale, come la prenotazione dei vaccini, ma nella città in cui viviamo, pur essendo la Capitale, non ce n’è traccia e ci vediamo costretti a investire mattinate di lavoro, che potrebbero essere sostituite da un click di cinque minuti. Per mestiere e personalità siamo anche entusiasti di essere capitati in un secolo speciale. Per centinaia di anni le condizioni e le abitudini di vita degli umani sono rimaste invariate. Non abbiamo fatto in tempo a dispiacerci per non aver partecipato alla rivoluzione industriale, che ecco si presenta la possibilità straordinaria di essere protagonisti della rivoluzione digitale. Insieme ad altri happy adopters celebriamo ogni giorno in convegni, tweet, post, la fortuna che ci è capitata e le sorti magnifiche e progressive che ci aspettano. Poi però ci guardiamo intorno e vediamo talvolta o spesso, sguardi cupi o, semplicemente, smarriti. Ci rendiamo conto che tra le migliaia di app esistenti, alla fine si usa soprattutto WhatsApp e dai 10 anni agli 80, il sorriso trionfa perché ci si sente così orgogliosamente moderni. Moderni per cosa? Per parlare sempre di più, sempre con più persone. Una visione riduttiva dell’innovazione a cui potremmo ambire. Ci rendiamo anche conto però che, forse perché non siamo nativi digitali, la sera siamo stanchi dei nostri device, delle nostre attività virtuali, delle batterie da ricaricare e sfogliamo con piacere libri di carta, che ormai quasi non riusciamo più a leggere, ma ci attirano perché sono fantasticamente reali. Gli editori americani hanno usato il concetto di “fatica digitale” per interpretare l’improvviso calo delle vendite di ebook a favore del libro di carta. Anche se il nostro entusiasmo è inattaccabile, il dubbio ci sfiora che esista una fatica digitale, un lavoro cognitivo ed emotivo che assorbe energie preziose e che cerchiamo di ridurre, privilegiando l’umana conversazione, all’uso strumentale di tecnologie che percepiamo faticose. In realtà potrebbero ridurre la complessità di molti aspetti della nostra vita quotidiana, ma non riusciamo a coglierlo.
Possiamo lavorare sulla fatica digitale? Ridurre il nostro tempo su WhatsApp e investirlo in innovazioni con un impatto di trasformazione più significativo? In un articolo che tutti i decisori e gli startupper dovrebbero leggere, Trisha Greenhalgh si chiede: “Why do so many technology projects in healthcare fail?”.
Per rispondere a questa domanda Greenhalgh presenta un modello di misurazione di efficacia che potrebbe essere adottato per l’introduzione delle nuove tecnologie. Pur essendo una progatonista del Rinascimento dell’EBM, Trisha Grenhalgh ritiene riduttivo e poco utile un approccio di misurazione dell’efficacia basato esclusivamente sui trial clinici randomizzati. Come sostiene spesso anche Eugenio Santoro, dell’Istituto Mario Negri, occorrono metodologie solide e multidimensionali. Il solo trial clinico non valuta il potenziale di abbandono futuro della tecnologia e la fattibilità organizzativa degli strumenti.
A partire da una revisione sistematica e da una molteplicità di case study, Trisha Greenhalgh propone un modello diverso di valutazione per prevedere e misurare il successo di una tecnologia (NASSS, nonadoption, abandonment, scale-up, spread, and sustainability), articolato in sette dimensioni: 1. il tipo di patologia; 2. le caratteristiche dello strumento tecnologico; 3. La “value proposition”, cioè il valore aggiunto per ogni attore coinvolto; 4. il profilo degli utilizzatori (curanti, pazienti, caregivers); 5. le caratteristiche dell’organizzazione che utilizzerà la tecnologia; 6. il sistema più ampio istituzionale e sociale, inclusi gli aspetti legali e di policy; 7. l’interazione tra le diverse dimensioni e il percorso di utilizzo nel tempo. Secondo il modello, ognuna di queste dimensioni può essere semplice (con pochi elementi noti e prevedibili), complicata (con molti elementi ma riconducibili a percorsi e evidenze note), complessa (molti elementi che possono evolvere in modalità poco note). In ognuna di queste dimensioni si intrecciano aspetti socio-culturali, modelli relazionali, profili di identità, vincoli economici e normativi. Sicuramente il modello proposto è articolato e consente di misurare l’introduzione di una nuova tecnologia non solo con gli aspetti più strettamente tecnici o clinici ma anche con le dimensioni talvolta nascoste di un’organizzazione. Una nuova tecnologia può infatti mettere in discussione modelli culturali impliciti, gerarchie formali ma anche informali, routine che sulla carta non esistono ma che in realtà regolano attività chiave delle strutture. Così come non poco rilevanti per la scalabilità e la diffusione nel tempo è la stima da subito dei costi e dei fondi disponibili per coprirli. Il modello è stato applicato a diverse tecnologie, dalla televisita a health kit per pazienti e caregiver. Se tutte le dimensioni sono semplici, il tasso di successo della tecnologia è elevato, se diventano complicate, ci vuole più tempo ma ancora il risultato può essere raggiunto, se invece molte dimensioni sono complesse, aumenta in modo significativo il potenziale di abbandono. Potremmo usare il modello anche in modo più dinamico e immaginare che la tecnologia potrebbe trasformare in semplice una dimensione complicata o offrire elementi per meglio gestire una situazione complessa. Oppure l’abbandono della tecnologia potrebbe rivelare l’urgenza di cambiamenti organizzativi importanti. O ancora, il bisogno di formazione. Disporre di modelli multidimensionali è il primo passo per introdurre l’innovazione digitale in sanità e ridurre la fatica digitale che spesso è al tempo stesso individuale ma anche sistemica.