La post-truth è diventata la parola bandiera di chi nell’area della salute continua a vedere le conversazioni online come disinformazione, conferma di una mancanza di cultura scientifica, trasporto emotivo irrazionale e ingiustificato, appropriazione indebita di un discorso che dovrebbe essere guidato da specialisti, da esperti, da chi ha studiato.
Il discorso sulla post-truth, nella salute, ma anche in politica, si configura, a ben vedere, proprio con le caratteristiche che chi denuncia la post-truth attribuisce al discorso degli ‘altri’. Somiglia molto ai rumors, cioè a quei dispositivi narrativi che si autoconfermano, man mano che si diffondono. Vediamolo più da vicino:
1. come ben documenta Oxford Dictionaries, che l’ha scelta come parola del 2016, l’uso del termine post-truth esplode all’improvviso in associazione a Brexit e Trump. Come molti rumor, ha in primo luogo una funzione identitaria: serve a identificare il ‘noi’ rispetto a ‘loro’. Noi che non votiamo Trump, noi che siamo dalla parte giusta del mondo, noi che non siamo strumentalizzabili, noi che sfuggiamo al canto delle sirene del capo carismatico, noi che siamo un’élite colta e informata…
2. come il rumor, la conferma dell’esistenza della post-truth viene con il suo diffondersi, con i tanti ‘noi’ che riesce ad aggregare. Non è falsificabile perché vive della ‘verità’ del noi che intorno ad essa si riconosce. In un modo non molto diverso da come si è aggregato il noi del Brexit e di Trump. Dove sono gli studi che mostrano l’efficacia della cosiddetta post-truth nel generare decisioni e comportamenti? Ma ha vinto Trump, si dirà. Appunto. Possiamo ridurre e liquidare con la post-truth l’analisi dell’emergere di una leaderhip carismatica, in una società complessa come quella americana? Il ragionamento rischia di diventare presto circolare, esattamente come i rumors. La post-truth rischia di essere una fake news proprio come le fake news che vorrebbe denunciare.
Come scrive in un bell’articolo Mafe De Baggis: “Spesso il debunking, l’atto di smontare le bufale, assomiglia a una lezione impartita al buon selvaggio con un linguaggio molto più adatto a consolidare il legame con chi la pensa come noi che a creare un ponte con chi la pensa diversamente”.
In tutto questo discorrere di post-truth, sembra talvolta riemergere un’opposizione ben nota agli antropologi, quella tra credenza e conoscenza, con la credenza tutta concentrata nel sapere popolare, più o meno manipolato o manipolabile e la conoscenza, come appannaggio esclusivo di alcuni segmenti di saggi, esperti, scienziati, autorità. In questa prospettiva, lo spazio digitale diventa un mondo di falsi miti e informazioni distorte. La soluzione? Offrire le informazioni corrette, rimuovere le notizie false, orientare, educare.
Nell’area della salute, ne deriva un’indicazione immediata per l’agenda pubblica e medica: garantire l’accesso alle informazioni corrette ed educare a discriminare tra vero e falso.
Le scienze sociali mostrano invece come il soggetto e i gruppi agiscano in modi molto più articolati, non riducibili alla dinamica informazione/disinformazione. Alla base dell’agire non ci sono solo fatti, obiettivi, informazioni e strumenti. Ci sono paure, ambivalenze, desideri, opportunità, relazioni, identità, significati e ricerca di significati. Il soggetto non verifica le informazioni, le filtra sulla base di bisogni e aspettative. Il digitale non offre informazioni (vere o false che siano), offre risorse alla “crisi della presenza” generata dalla malattia. Aiuta a gestire vissuti ambivalenti, regala un capro espiatorio, esorcizza ansia e incertezza, fa vivere un sogno.
La conversazione sociale online consente a individui e gruppi di attingere a un repertorio ampio di immaginario, linguaggi e storie per costruire i propri percorsi di significazione e simbolizzazione della malattia. La conversazione online è un’opera aperta collettiva che circola, si trasforma, si arricchisce di nuove versioni. Un crocevia narrativo dove si incontrano, si scontrano, si giustappongono e talvolta si ignorano voci, significati, con modalità di volta in vola differenti. Per alcuni il cancro sarà una condanna scritta nel proprio DNA, per altri sarà determinato dall’avvelenamento criminale della terra e dell’acqua, per altri ancora dalle condizioni di lavoro e così via…
Anche un medico, quando diventa paziente, stenta a conciliare il sapere clinico con l’impatto e il vissuto di malattia. In un articolo molto interessante “Sick but not Sick” su The New York Review of Books, l’oncologo americano Jerome Groopman racconta come il ricevere una diagnosi errata di metastasi ossea sia stata subito tradotta da lui, normalmente poco suggestionabile, in un dolore improvviso e intenso, totalmente immotivato dal punto di vista clinico.
La mia critica all’uso della categoria di post-truth non vuol essere un lasciapassare indisturbato a tutto quello che circola, mira a segnalare le trappole interpretative che genera un uso di post-truth generalizzato e indistinto. La complessità e la multidimensionalità del web come crocevia narrativo richiedono parole-chiave più articolate per orientarsi e intervenire. Per ora proponiamo ascolto e misurazione, empatia e impegno.
1. Ascolto e misurazione
Nel crocevia, si incontrano le fake news, ma chi le produce, come si diffondono, perché si diffondono, quanto influenzano? Più che la reiterazione rituale dell’invasione della post-truth, come una sorta di blob indistinto che travolge, occorrono ricerche approfondite su questi nuovi mondi e modi di comunicazione e influenza.
Un lavoro importante di analisi su un corpus di dati molto esteso è portato avanti da anni da Walter Quattrociocchi e dal team dell’IMT School for Advanced Studies di Lucca. Gli studi mostrano l’importanza delle dinamiche all’interno delle cosiddette echo-chambers e del confirmation bias identitario.
Filippo Menczer, un cervello italiano in fuga all’Università dell’Indiana, ha creato HOAXY, un motore di ricerca progettato per segnalare le fake news su Internet e la loro circolazione su twitter. Alla domanda sul potere delle “bufale” nel determinare la vittoria di Trump, Menczer risponde:
“Nessuno può rispondere con certezza a questa domanda. Motivo per cui è importante fare ricerca nel campo della disinformazione” e aggiunge “parte della nostra ricerca consiste nel comprendere perché le falsità sono più virali dei contenuti di fact-checking”.
Occorre di volta in volta misurare, nel contesto specifico, se le fake news siano effettivamente più virali e poi anche rendere conto del perché, che non può essere esclusivamente associato a manipolazione, credulità, populismo, ignoranza. Il fact checking richiede di essere integrato con il social fact checking, cioè l’ascolto di quei fatti che sono ritenuti socialmente veri, perché creano empatia e identificazione, spesso all’interno di comunità online molto coese. Non guardiamo le fake news solo come disinformazione, ma come la risposta a bisogni, esigenze, ambivalenze, paure, relazioni, identità. Come scrive Luca De Biase:
“Siamo a una svolta epocale. Da Harvard, arriva un suggerimento di Susan Fournier, John Quelch e Bob Rietveld: guardare ai dati non come gestori di informazione, ma come antropologi: non solo per gestirli ma anche per interpretarli” (Hbr).
Riprendiamo il tema vaccini. Una ricerca molto interessante del Censis, coordinata da Ketty Vaccaro, con il contributo incondizionato di MSD ITALIA, indaga il mondo dei millenials e, tra l’altro, l’orientamento verso il vaccino per l’HPV. Due dati sono molto interessanti e fanno riflettere. Quando si tratta di informarsi sull’HPV, i giovani tra i 12 e i 24 anni, indicano come fonte principale i media e il web, quando invece si parla di vaccino, il referente primario diventa il medico. Circa poi il 35% di chi conosce il vaccino, dichiara di essere stato sconsigliato e, anche in questo, i professionisti sanitari hanno, purtroppo, un ruolo significativo.
Due osservazioni: siamo sicuri che il web influisca così tanto sulla scelta pro o contro il vaccino? Se sì, possiamo assumere a priori che il web sia prevalentemente contro? Il discorso online sui vaccini è completamente cambiato rispetto a qualche anno fa: la campagna #iovaccino, nata dall’impegno personale di una mamma, Alice Pignatti, ha aggregato un fronte pro significativo e importante (teamvaxitalia). Il crocevia è mutevole e non può essere ‘bloccato’ in una visione rigida e aprioristica.
2. Impegno e empatia narrativa
Scrive l’antropologo Byron Good nel 1993 (google nasce nel 1998), a proposito del libro di Susan Sontag, Illness as a Metaphor:
“Paradossalmente, il desiderio della Sontag di sbarazzarsi delle metafore, di ‘distruggerle’, riproduce l’ideale illuminista di una cultura libera da rappresentazioni; della malattia come realtà oggettiva; delle bioscienze come fonte di rappresentazioni neutrali e realistiche, e della cultura popolare come grondante metafore perniciose e, in fin dei conti, errate […] sostituire un’errata cultura popolare con ‘l’informazione avalutativa’ della scienza appare all’antropologo un obiettivo inadeguato, sia culturalmente sia per un’azione mirata”. (Byron Good, 2006, kindle edition, pos. 1455 di 7668).
L’epidemia narrativa su malattia e salute richiede impegno nelle competenze narrative, a diversi livelli.
Nella relazione medico-paziente, con il potenziamento della medicina narrativa come metodologia per esplorare l’universo di significati, esperienze, percezioni, bisogni che, sempre più, il paziente costruisce nei suoi percorsi online. Un impegno che sia empatico e non dominato dallo scetticismo difensivo della post-truth, come purtroppo spesso accade.
Nel campo sociale online, con lo storytelling digitale e la capacità di unirsi e di partecipare alla conversazione in rete. Questo esige l’acquisizione di linguaggi e metafore in grado di creare prevenzione narrativa rispetto a bufale e fake news.
Nell’era digitale, la competenza narrativa può aiutare a coniugare attendibilità delle notizie e metafore della malattia e della cura, “credenza” e “conoscenza”, due polarità di uno stesso obiettivo: offrire senso e significato dal punto di vista del soggetto. Come scrive Evans-Pritchard in una monografia sugli Azande degli anni ’30, diventata un classico dell’antropologia:
“Ogni Azande sa che, nel tempo, le termiti divorano i sostegni [dei granai] e che persino il legno più tenace invecchia dopo anni d’uso […] Ma perché proprio quelle persone erano sedute sotto quel granaio nel particolare momento in cui è crollato?”.