In un saggio sulla valenza terapeutica dell’esperienza estetica l’antropologa Margitta Zimmermann racconta il caso di Madame Florentine, una donna di 42 anni, che soffre da tempo di forti dolori al basso ventre e di perdite emorragiche. La radiografia mostra un utero ipertrofico, ma non si capiscono le cause del malessere. Tornata a casa dopo la visita, scoraggiata, Madame Florentine si ritrova a guardare e a toccare le sue radiografie e a rendersi conto per la prima volta che mostrano “il suo ventre”, qualcosa di lei, interno a lei. La “visione” scatena un flusso di ricordi e progressivamente Madame Florentine si riappropria del suo utero: da organo nemico e alieno, fonte di dolore, a icona/traccia della sua storia e della sua emotività. Per la prima volta Madame Florentine trova il suo utero bello e decide di incorniciarlo e appenderlo nella sua stanza da letto, premiandolo con una cornice che apparteneva ad un ritratto del padre, in un processo di doppia investitura simbolica, identitaria e terapeutica.
Il caso di Madame Florentine sintetizza la scissione progressiva che la biomedicina ha prodotto, nel curante e nel paziente, tra organo, malattia e persona. Prima di essere incorniciato, l’utero di Madame Florentine non le apparteneva, apparteneva alla malattia e al medico incaricato di curarla.
Nel 2012, l’artista Salvatore Iaconesi condivide online la cartella clinica e le risonanze magnetiche che mostrano il suo tumore al cervello per riappropriarsi della sua malattia e del suo percorso di cura, non in una stanza chiusa, ma attraverso una “open cure”.
Madame Florentine e Iaconesi segnalano l’urgenza di recuperare una cornice per la malattia, di ricostruire il contesto in cui si produce, che non è l’organo isolato, ma la persona come “fatto sociale totale”, cioè come un insieme indissolubile delle componenti fisiologiche, psichiche e sociali.
Questo è stato l’obiettivo del corso Volere non basta: da un nuovo paziente a una nuova alleanza terapeutica. Non basta ripetere ritualmente la centralità del paziente/persona, occorre ostinatamente dotarsi degli strumenti teorici e metodologici per cambiare la pratica clinica. La cornice metodologica proposta da #volerenobasta è la medicina narrativa, declinata anche attraverso le nuove potenzialità di applicazione generate dalla rivoluzione digitale. L’open cure di Iaconesi è un bello stimolo se si riesce a portarla anche nel quadro di una nuova alleanza terapeutica, che valorizzi la relazione e lo scambio persona-curante. Lasciata solo ad internet, l’open cure può trasformarsi, al contrario, in un fattore di rischio e generare nuovi effetti collaterali.
Il corso è la quarta tappa della Patient Academy di Fondazione MSD, che ha coinvolto 25 Associazioni di Pazienti. E’ stato ideato e coordinato da me, con il team dell’Osservatorio Medicina Narrativa Italia e patrocinato dall’Istituto Superiore di Sanità e dal Politecnico di Milano. Un percorso ricco e originale, reso possibile dall’impegno delle associazioni e dei relatori, dalla vision di Goffredo Freddi e dalla competenza, dall’entusiasmo e dalla passione per l’innovazione di Claudia Rutigliano, di Fondazione MSD.
Il dossier online di CARE restituisce alcuni contenuti importanti e su OMNI Network sono disponibili i materiali del corso, che ha coinvolto come relatori i protagonisti della medicina narrativa in Italia.
Più difficile restituire la vitalità del corso costruita dai dubbi, dalle osservazioni, dai contributi delle associazioni dei pazienti partecipanti.
Forse riesco a condividere uno dei risultati più importanti: il digitale non è solo un nuovo strumento per applicare la medicina narrativa, può contribuire ad ampliare i confini e le modalità dell’uso delle narrazioni nella pratica clinica.
Il primo giorno di corso, circolava in aula un po’ di scetticismo, associato ad una visione della medicina narrativa come storytelling o come una modalità come le altre per raccogliere i bisogni dei pazienti, area di esperienza ormai consolidata per le associazioni. Le obiezioni sono state del tipo: “abbiamo già raccolto noi le storie dei pazienti“, “abbiamo già fatto un concorso narrativo“, “sappiamo già quali sono i bisogni dei nostri pazienti”, “il nostro obiettivo è ottenere risposte, servizi, farmaci, non altre storie…”
Quasi tutti, alla fine dei sei incontri, hanno riconosciuto di avere un nuovo sguardo e nuovi strumenti. Hanno colto e fatto proprio il difficile salto epistemologico tra l’accogliere e il rappresentare i bisogni e le esigenze di una categoria di pazienti e la personalizzazione del percorso diagnostico-terapeutico-riabilitativo di una persona, con il suo intreccio unico e irripetibile di biomedico e biografico. La precision medicine non nasce solo dal genoma, nasce anche dalla una storia portatrice dei sintomi, dei vissuti, delle aspettative, del singolo soggetto.
Anche la mia visione della medicina narrativa è cambiata durante il percorso. Come ho più volte ricordato nei miei articoli, Le Linee di indirizzo dell’Istituto Superiore di Sanità sull’applicazione della medicina narrativa nella pratica clinica, sottolineano l’aspetto centrale della co-costruzione e della personalizzazione:
“La narrazione è lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura. Il fine è la costruzione condivisa di un percorso di cura personalizzato (storia di cura). La Medicina Narrativa (NBM) si integra con l’Evidence-Based Medicine (EBM) e, tenendo conto della pluralità delle prospettive, rende le decisioni clinico-assistenziali più complete, personalizzate, efficaci e appropriate”.
“Integrare i diversi punti di vista”, “costruzione condivisa”, “pluralità delle prospettive”, nella mia riflessione e anche nella progettazione della piattaforma DNM-Digital Narrative Medicine, questa “pluralità” l’avevo sempre pensata e declinata come relazione uno a molti. Uno: il paziente o il caregiver che lo rappresenta, molti, il team dei curanti. Lavorare con le associazioni, mi ha aiutato a cogliere i limiti di questa visione, che rischiava di riprodurre implicitamente una supremazia relazionale e conoscitiva dei ‘molti’. Pur se finalizzata alla personalizzazione e al miglioramento del percorso di un singolo e non di una categoria, la medicina narrativa può avere l’ambizione di integrare il punto di vista non solo del paziente e del team curante, ma anche del volontario, del paziente esperto, del familiare, dei membri dell’associazione, con il loro patrimonio di conoscenze ed esperienze. Una open cure inserita in un setting medico che la valorizza e la argina rispetto alle direzioni rischiose di una crowd medicine su internet. Il digitale rende più percorribile l’integrazione dei diversi punti di vista e può favorire la produzione collettiva di conoscenze e di decisioni clinico-assistenziali, al tempo stesso collettive e personalizzate.
Grazie a tutti!!!