Il dolore può essere al tempo stesso un’esperienza immediata, intensa, urlata, associata a una causa evidente e dimostrabile, ma anche una percezione fortemente soggettiva, poco comunicabile, di origine sconosciuta, non misurabile.
Chi decide se il mio dolore è vero? Chi decide l’intensità accettabile del dolore, la soglia, che una volta superata, legittima l’intervento e la cura? Il dolore crea empatia ma anche stigma ed esclusione. Viene raccontato come forza e coraggio ma anche come sacrificio o colpa. Il dolore intreccia vissuti personali, significati culturali, regole sociali, gerarchie di potere, disuguaglianze, stereotipi di genere e di età. Perché dobbiamo soffrire per le mestruazioni o per il parto? Perché i dolori del bambino, dalla testa alla pancia, spesso vengono considerati messa in scena? Perché siamo portati a considerare alcuni dolori necessari e altri finti?
Clara Gallini è un’antropologa che ha studiato a lungo i rituali terapeutici. Ha molto ispirato il mio “sguardo da lontano”. Nel 2016 ha pubblicato “Incidenti di percorso. Antropologia di una malattia“, in cui racconta le sue ripetute operazioni al cervello per un tumore. Scrive:
“Sono passati più di due anni e mezzo dall’ultimo intervento, e il dolore non mi ha mai abbandonato. Non ho cristiana sopportazione, e cerco sempre. Qualcuno ci deve essere che lo sappia, non dico togliere, ma per lo meno alleviare.”
Alla ricerca di una soluzione, Clara Gallini viene accompagnata a Milano da un noto oculista che lei chiama il Professore. Così descrive l’incontro:
“Mi fa sedere su una poltrona dall’alto schienale, mi si avvicina, mi guarda fisso negli occhi e mi afferma con tono imperativo: ‘Lei non ha dolore’. E io, con tono altrettanto deciso: ‘Ma io ho dolore! Ho dolore!’. […] Il Professore allora bofonchia una spiegazione: ‘Il suo trigemino è rotto e non trasmette più. Non ha dolore, crede di averlo. Un paradosso, è come quando tagliano una gamba o un braccio. Continua a sentite il dolore. E’ la sua immaginazione’”.
Clara Gallini non ci dice se la scoperta del paradosso del suo dolore sia servita ad attenuarlo. Ci lascia con il dubbio su cosa sia questa immaginazione che trasforma un dolore inesistente in sofferenza intollerabile.
Il neurofisiologo Fabrizio Benedetti ha raccontato con grande efficacia il potere dell’immaginazione, nel corso del V Convegno di Medicina Narrativa, “Le narrazioni nella valutazione e nel trattamento del dolore”, organizzato da USL UMBRIA 2 e OMNI, con il supporto incondizionato di DNM-Digital Narrative Medicine.
La domanda introduttiva di Benedetti: “Parole e farmaci: stesso meccanismo di azione?” ci conduce in un viaggio nell’immaginazione del dolore e della cura, che apre interrogativi interessanti anche sul futuro della digital health e della medicina narrativa.
Nel libro “L’effetto placebo. Breve viaggio tra mente e corpo”, Fabrizio Benedetti approfondisce gli studi più recenti sui processi di azione cerebrale del placebo, resi possibili dall’uso di tecnologie rivoluzionarie come la tomografia a emissione di positroni e la risonanza magnetica funzionale.
Da neurofisiologo, Benedetti racconta la cura come rituale dell’atto terapeutico, in cui non si somministrano solo farmaci ma anche spazi, odori, colori, parole del medico, cioè stimoli sociali e simbolici. Il placebo non è semplicemente un farmaco finto, è l’insieme di questi stimoli. Potremmo dire che si somministrano il senso e il significato del farmaco, senza il farmaco. E’ questo rituale che contribuisce a creare l’impatto positivo della cura, l’effetto placebo, o anche negativo, l’effetto nocebo, perché le parole e i simboli possono curare ma anche ammalare.
In particolare, gli studi mostrano l’efficacia del placebo, o del nocebo, proprio per il trattamento del dolore. La narrazione che accompagna la somministrazione può creare aspettative positive che generano effetti analgesici come un farmaco, attraverso l’attivazione di endorfine, sostanze simili alla morfina, ma prodotte dal nostro cervello. Nello stesso tempo stimoli verbali negativi possono aumentare il dolore. Le implicazioni per la clinica sono fondamentali: dall’importanza del saper comunicare la diagnosi, fino all’uso delle nuove tecnologie.
Gli studi dimostrano che la somministrazione di un farmaco di nascosto è meno efficace di una somministrazione accompagnata da una relazione e una narrazione. Benedetti racconta l’impatto del setting e della storia di cura sull’immaginazione attraverso un esperimento che prevede una doppia somministrazione di uno stesso farmaco. Una somministrazione avviene con un rituale dell’atto terapeutico che rassicura sull’efficacia del farmaco nella riduzione del dolore: il dolore diminuisce. Una somministrazione avviene attraverso un computer, con un rilascio del farmaco in un tempo ignoto al paziente e ai medici stessi: il dolore resta inalterato. Pur restando alta, anche l’efficacia della morfina è ridotta se si elimina l’aspettativa positiva creata dal rituale terapeutico. La componente placebo è infatti un elemento importante per tutti i farmaci e non solo nel caso del farmaco finto. Come scrive Benedetti:”qualsiasi terapia ha due componenti: la prima è rappresentata dagli effetti specifici, per esempio di un farmaco, mentre la seconda è costituita dall’aspettativa del beneficio terapeutico”. L’importanza di questa componente psicosociale e simbolica, osservata e raccontata dall’antropologia, è ora dimostrata dalla neurofisiologia.
Gli studi sugli effetti placebo e nocebo hanno una grande rilevanza per un’attuazione efficace delle norme sulla terapia del dolore.
Possiamo sostenere che è possibile curare il dolore solo con le parole o con simboli che creano aspettative positive? No, non è possibile perché il placebo non garantisce la stessa sicurezza di efficacia e di continuità nel tempo del farmaco. Come spiega Benedetti, non tutti rispondono nello stesso modo al placebo e la stessa persona può rispondere in modi diversi, a seconda della situazione. Spesso poi la durata dell’effetto placebo è più limitata di quella del farmaco.
Possiamo automatizzare la somministrazione dei farmaci? No, se per automatizzazione intendiamo una somministrazione privata del suo senso e del suo significato. Anche un antidolorifico molto potente, privato dell’immaginazione creata dal rituale terapeutico ha un’efficacia ridotta. Automatizzare non significa però necessariamente utilizzare i computer, significa agire in modo automatico su un paziente visto e trattato come una macchina. L’automatizzazione non sta nello strumento, ma nello sguardo e nella relazione.
Tiziano Scarponi è un medico di medicina generale che condivide sul suo blog e su facebook le storie dei pazienti. Riporta l’osservazione di una paziente:
“Certo dottore, che nel reparto in cui sono stata ricoverata i pazienti sono del tutto trasparenti. […] Voglio dire è come se fossimo invisibili, come se non ci vedesse nessuno! Arrivano, ti levano il sangue, senza guardarti o dirti qualcosa, ti ficcano quasi le pillole in gola, i medici ti visitano in silenzio e non ti degnano nemmeno di uno sguardo… come se fossimo proprio del tutto quasi trasparenti…”.
“Ficcare quasi le pillole in gola”: questa è una somministrazione automatica, che riduce i benefici del farmaco, può creare effetti nocebo e aumenta sicuramente la spesa sanitaria. Un computer accompagnato dalla giusta storia per il singolo paziente può, al contrario, favorire la risposta positiva. Il rituale dell’atto terapeutico non equivale necessariamente a una relazione personale, diretta e umana. Può anche essere una relazione a distanza, usare strumenti digitali, se però integra la medicina narrativa, come metodologia fondamentale per condividere con il paziente la storia di cura più efficace nel mobilitare e valorizzare l’immaginazione positiva.
La narrazione personalizzata della cura ha un ruolo fondamentale nel favorire un’immaginazione del dolore terapeutica, perché attribuisce al dolore un senso e un significato associati alla nostra identità, al nostro schema corporeo, al vissuto di malattia, alla percezione del percorso terapeutico.
Per una terapia del dolore efficace riduciamo le pillole “ficcate” in gola e miglioriamo l’appropriatezza della storia di cura.