Il discorso mediatico e tra specialisti sul mondo digital health è dominato da tecnologie, device, app. Alla rapidità straordinaria dell’innovazione tecnologica non sembra corrispondere una riflessione sull’impatto di tutto questo sul vissuto della malattia, sull’autorappresentazione, sull’identità personale e sociale, sugli effetti della cura, sulle opportunità e le difficoltà per i medici. Si celebra la nuova consapevolezza del paziente ma tra digital health e medical humanities sembra ancora esserci scarso confronto e interazione. Le stesse autorità sanitarie stentano a capire se e quali regolamentazioni introdurre. Pochi giorni fa la Commissione europea ha lanciato una consultazione sulla #mhealth per sfruttare al meglio le potenzialità della salute via telefonino ma anche affrontare anche alcuni nodi irrisolti, come i requisiti di sicurezza e prestazione.
Proliferano le sperimentazioni e le stime economiche sulle “tecnologie indossabili”, meno su quale sia l’effetto sullo schema corporeo di questo corpo ibrido, al tempo stesso reale e digitale.
Non c’è bisogno di immaginare second body avveniristici per capire la portata del cambiamento. Pensiamo all’impatto di una funzione semplicissima e utizzabile già da tutti: la ricerca per immagini di google. Quando mai in passato chi era affetto da una patologia aveva la possibilità di vedere immagini, centinaia, migliaia di immagini, della malattia?
Provate a digitare “psoriasi” su google. Appaiono immagini associate a situazioni e codici semiotici ed emotivi completamente diversi: l’immagine pubblicitaria, l’immagine medica con la pelle e l’intero corpo devastati e “mostruosi”, l’immagine rasserenante e pacificante delle terme e delle cure “naturali”. E immaginiamo un paziente che inizi il suo viaggio, anche online, con la psoriasi. Se ne è parlato nel corso di “Io al centro” dal 3 al 5 aprile a Roma. Un evento che ha coinvolto più di cento dermatologi provenienti da tutta Italia, organizzato con il contributo incondizionato di Pfizer. Le immagini delle malattie della pelle hanno riempito per secoli i trattati medici, ma mai un corpus così esteso di rappresentazioni della pelle malata è stato disponibile così facilmente ad un paziente. In che modo lo schema corporeo, l’autorappresentazione, il vissuto della malattia è impattato dal confronto con questo “altro da sé” che si può diventare? In che modo il corpo reale reagisce al confronto con questo corpo virtuale che minaccia di essere il suo futuro o che gli restituisce, come in uno specchio deformante, il suo presente? La psoriasi è una patologia grave con un accesso alla cura spesso ritardato e una tendenza a preferire i rimedi naturali. Forse la disponibilità di un repertorio così immediatamente brutale della malattia rafforza le difficoltà a volersi riconoscere “malati” di psoriasi.
Si parla spesso di medicalizzazione di aree importanti della salute, ma poco di demedicalizzazione in aree invece a rischio. In entrambi i casi le informazioni, i modelli, lo schema del corpo virtuali hanno un ruolo significativo.
C’è poco però di tutto questo negli incontri internazionali più importanti dedicati alla digital health e sono scarse le tracce di digitale nelle medical humanities. E’ sufficiente scorrere l’agenda e i relatori del Digital Health Summit di Las Vegas, tra gli appuntamenti più importanti del settore. Dove sono gli antropologi, gli storici, i semiotici, gli psicologi che pure potrebbero dare un contributo importante? Ugualmente, sfogliando i sommari 2012-2013 di Medical Humanities, troviamo un solo articolo (molto interessante) in questo ambito.
Qualche stimolo di riflessione in più sembra arrivare da due eventi dei prossimi mesi. Il 1st Italian Digital Health Summit a Milano a maggio, organizzato da About Pharma, che invita ad interrogarsi su come cambia la comunicazione tra cittadini, pazienti, istituzioni e aziende con l’affermarsi dei social media. Doctors 2.0 & You a Parigi a giugno, focalizzato proprio sull’esperienza e le valutazioni dei pazienti, meno celebrativo e più orientato ad approfondire il potenziale di impatto e l’efficacia delle trasformazioni in corso. Forse c’è spazio per costruire le digital health humanities.